Mi fissava con uno sguardo profondo mentre sorseggiava il suo spritz. Senz’acqua e corretto gin. Decisamente forte, come piaceva a lui.
Lo ingurgitava tutto d’un fiato per rimarcare il suo ruolo nel gruppo, o meglio, nel branco. Lui il maschio dominante, l’uomo Alfa.
Sbattè senza cura il pesante bicchiere sul tavolo color argento che traballò per l’ennesima volta. Il ciottolato antico di quella piazza mal si adattava alle gambe maldestre di un tavolo rotondo d’alluminio.
“Avanti Ale, ora puoi parlare. Su, non aver paura”. Disse con falsa voce suadente.
Fu un raro istante in cui il suo tono poteva ricordare Fausto, il vecchio capo.
Fausto era un uomo di mondo, alto, slanciato e con una testa grossa così. Grossa in tutti i sensi. Davvero. Spiccava per la sua grandezza fuori norma in tutte quelle foto che lo riprendevano in primo piano. Adorava essere ripreso in primo piano. Ma la testa era grossa anche in senso qualitativo. Ce n’aveva di materia grigia da vendere in quella zucca.
“No, non ho paura capo, è solo che…” provai ad accennare.
“Ssh, ssh… calmati, calmati. Non fare così. Con noi puoi parlare liberamente. Lo sai, giovane Ale”.
A sentir quelle parole mi uscì un mezzo sorriso amaro. “Giovane Ale”, così mi aveva chiamato. È curioso. Era il vecchio Fausto a chiamarmi così. Pure lui era un maschio dominante. Ma era anche tutto diverso. Fausto era la nostra guida perché usava la testa. Era la sua intelligenza a farne un vero maschio Alfa. Un’intelligenza superiore. Un’intelligenza che non lasciava scampo.
Alla fine, però, lo scampo lo lasciò a tutti. Perché se ne andò. Ironia della sorte, fu proprio la sua intelligenza a portarselo via lontano, in un altro paese. L’Italia non l’avrebbe proprio apprezzata.
“Si Stino, hai ragione…” risposi mentre abbassavo lo sguardo.
Stino mi rincuorò con due semplici cenni della sua grande mano. Come sempre mi appariva grosso quell’uomo, nonostante millantasse superbi risultati per una sua stupida cura dimagrante. Si era affidato ad un esperto, diceva lui. Senza dubbio un coglione pensavo tra me e me.
E a pensarci bene, in fondo, per noi tutti era sempre stato solo un bastardo. Un bastardo dentro. Agli inizi, quando cominciò ad imporre il suo comando con la forza fisica, alcuni di noi erano convinti che avrebbe presto dimostrato anche doti da buon padre padrone. La diligenza del buon padre di famiglia. Duro con i duri, ma benevolo verso chi, onestamente, metteva buona volontà nel fare le cose.
Non fu così. E lo scoprimmo troppo tardi.
“Avanti Ale, parla.”
Era tardi, molto tardi e guardai di sfuggita l’orologio come per scappare alla sua inquisitoria determinazione, ma oramai mi ero sbilanciato.
Come mi avrebbe detto Francesco, il buon Francesco, quello che tutti chiamavano il Presidente, avevo lanciato il sasso. E con Stino non si poteva nascondere la mano.
Lui quella mano me l’avrebbe certamente spezzata se solo avessi accennato a tirarla indietro. Era fatto così.
“Ale, tua hai un peso addosso. Lo sento”. Tirò su pesantemente con il naso. Poi aggiunse: “A volte lo sento anch’io quel peso, sai?”
E finì la sua ultima tirata di sigaretta.
“Sai cosa faccio? ...Oh, no. Certo che non lo sai. Ma a te lo dico volentieri… Vedi, Ale, io mi confido, sai. Intendo… con gli altri”.
Confidarsi era una parola vuota detta da lui. L’unico capo che fino a poche settimane fa sapeva davvero confidarsi era il Presidente. Lui sì che riusciva a farlo. E lo faceva alla grande. Quando cominciava a parlare non la finiva più. Monologhi interminabili. Sapeva concentrare su di sé l’attenzione di tutto il branco, e di tutti quelli che fossero appresso, parlando di fatti apparentemente inutili, superficiali, privi di qualsiasi dignità di cronaca, ma portandoli tutti all’altezza della nostra curiosità.
Ma a me poco importava perché il Presidente aveva carisma. Un carisma che infondeva voglia di stare insieme, insieme al branco, intendo, e di condividerne ogni avventura. Era bello vederlo, anche quando doveva ingaggiare spiritose battaglie verbali con i camerieri dei ristoranti.
Stinò gettò via la sigaretta con un rapido colpo del pollice e dell’indice. Rimbalzò per terra e finì sotto i suoi piedi. La spense con il tallone destro e, con una smorfia profonda lungo tutta la diagonale del volto, espirò l’ultima fumata dai polmoni.
Per un attimo mi gelò il pensiero che egli già sapesse tutto e che non avessi fatto altro che arrivare tardi. In quei casi Stino mostrava tutta la sue mancanza di rispetto verso gli altri.
Francesco, fino a pochi giorni prima, con il suo sorriso sapeva addolcire e perdonare a tutti qualsiasi cosa. Era tanto premuroso nei nostri confronti che si scattava un sacco di foto in solitario: tutti autoscatti, e andava in giro regalandoli a piene mani.
“Tieni – mi disse più volte – il mio sorriso ti aiuterà nei momenti di difficoltà”.
Io lo ringraziavo sempre di cuore, ma non ho saputo ringraziarlo l’ultima volta, anzi.
L’ho persino maledetto quando decise di andarsene, di abdicare e di fuggire a Milano. La sua vita era là, diceva. E l’ho maledetto ancora, e ancora in seguito, nelle lunghe ore della notte passate in solitudine col branco, senza guida, perché quella foto che avevo lì, adagiata sul comodino, non faceva altro che portare alla mente i bellissimi ricordi di spensierati momenti vissuti sotto le sue ali protettive.
L’ipocrisia del nuovo capo, invece, portava con sé solo un senso di vomito. Tutti sapevano che, quando Stino sapeva cose che altri pensavano egli non sapesse, veniva scosso da un brivido di eccitazione malsana. Un brivido. Un brivido che nasceva dalle profondità delle sue torbide viscere, saliva lungo tutta la spina dorsale, e finiva col condizionare il suo carattere. Fino al peggio.
Feci finta di niente. Con falsa sicurezza mi convinsi che quella smorfia fosse dovuta solo al fumo bianco addensatosi sui suoi occhi e non al suo gretto gusto malsano di fare del male.
“Io non vorrei sembrarti arrogante, Stino, ma penso che sia giunto il momento”.
“Davvero? E da quanto tempo Ale hai ripreso a pensare?” rispose sarcastico e con un ghigno di superbia.
“Lo faccio da molto Stino, si”.
“Ah si? Cosa curiosa. E allora avanti… stupiscimi!”
“Non possiamo stare sempre qui a sempre e solo a guardare le cose...”
“Come?” interruppe subito.
“E così noi staremmo qui.. “a guardare le cose”…?”
Il suo ghigno sfumò velocemente in un cenno di disgusto ed il suo carnoso labbro inferiore si pronunciò in avanti in segno di sfida. Il suo sguardo si era fatto profondo e cupo. Pareva pronto a cogliermi in fallo.
“Si! Ne sono convinto. Ne ho parlato anche con lui…”
Feci un cenno ad indicare la figura seduta alla mia sinistra. Cercai così appoggio alla persona che tanto speravo potesse concretamente favorire il consenso nell’animo del capo.
Lui era seduto in silenzio con le braccia incrociate e appoggiate alla sua solita maglietta della salute color verde militare. Erano dodici settimane che non la cambiava e aveva gli occhi semichiusi per la stanchezza.
Ma lui li portava spesso così, al punto tale da non poter essere distinto nei momenti in cui stava dormendo e nei momenti in cui stava riflettendo sull’empietà delle sue azioni commesse.
Alla mia richiesta, che capii subito non essere giunta gradita, alzò di scatto la testa e mi guardò. Non fissava precisamente la mia figura. Era come se cercasse di scorgere, attraverso le sue lenti sporche, qualcun altro vicino a me. Era strano, lo sapevo. In fondo, lo avevo sempre saputo.
Poi si chinò leggermente in avanti. Girò lo sguardo per un attimo e fulminò la nostra attesa con un grosso sputo per terra. Grande, enorme, di color indefinibile. Di sicuro da far schifo.
“Con me?” mi chiese stupito.
“Si, Marco, con te. Ti ricordi?”
Lo chiesi facendo appello disperato alla sua memoria.
“Non è che io abbia presente la questione… Cerca di capire, Ale, rientro or ora da Londra. Città grande, incantevole. Una città che distrae molto…”
Stino spostò solo le pupille verso di lui. Per il resto non si mosse di un millimetro e così Marco ebbe il consenso non negato di poter continuare.
“Io questa cosa non l’ho capita Ale, prima ci chiami tutti qui con tutta la tua soluta esultanza. Poi… fai tutto il timido. Lo sai che questa cosa non ci piace. A Stino no, no di sicuro. E a me, in maniera specifica…”
Parole erano fredde e taglienti. Parole che solo un responsabile sviluppo mercati esteri di una importante ditta di Padova poteva partorire.
Poi tirò un altro profondo sospiro, sgracchiò altri due profondi rumori di gola e sputò quant’altro ancora di verde e marrone ruggine potesse secernere il suo polmone destro. Il sinistro era andato da tempo. Il tutto mentre, con le braccia, si reggeva saldamente sulla seggiola per non venir sbalzato via dal suo stesso sforzo.
Pulì via quelle secrezioni vischiose dal suo muso facendo ampio uso della base della sua maglietta. Il cui colore trovò così ragion d’essere.
“Marco, tu mi avevi rassicurato che…” provai io.
“Rassicurato di che?! - mi interruppe ancora - non ti ho rassicurato un cazzo di niente, Ale! Capito?!”
Alzò la voce con violenza e spalancò gli occhi dietro quei suoi luridi occhialini. Il suo dito indice stava ora dritto davanti a me e teso verso l’alto per separarci idealmente.
Avevo temuto che potesse succedere, ma non con questo tono.
Marco non mi voleva ascoltare. Non ne voleva sapere proprio niente. Da quando Fausto era andato via era diventato così nei miei confronti. Definirlo intrattabile sarebbe davvero poca cosa. Provai per pochi istanti a cercare la risposta nei suoi occhi, ma quello che trovai, oltre la corte di grassume gialliccio appoggiato sulle lenti, era solo la sua perfidia e la voglia di sbarazzarsi di me una volta per tutte.
Capii che l’unica cosa che ora gli importava era provare, in tutte le occasioni, a mettersi bene in luce agli occhi di Stino.
Una reazione psicologica derivante dalla partenza del vecchio buon capo Fausto. Reazione difficile da capire, ma tremendamente seria. Era chiaro che il suo era amore.
Insomma, ebbi la più eloquente delle reazioni di chi, da quasi due anni, non faceva altro che dimenarsi per diventare il numero due del gruppo.
Stino a quel punto intervenì.
“Abbassa la mano, mia fedele Serpe!” lo ammonì il gran capo.
“Capo, è Ale che si inventa le cose… Mi fa incazzare come una iena!” proseguì Marco.
Il suo sguardo ribolliva di odio vero, vivo. Possibile che la contemporanea assenza di Fausto e presenza di Stino lo avesse trasformato così?
“Non posso permettere ad Ale di fare certe allusioni, capisci capo?”
“Si, si, Serpe, ti capisco…” rispose Stino con tono benevolo e annuendo leggermente con il capo.
Quando vide che Marco riprese a pulirsi col dorso della mano quella bava che gli sgorgava naturale dalla bocca e che scorreva giù, fin oltre il suo mento, solo allora distolse le sue attenzioni da lui. Poi riprese e con un cenno secco verso di me chiese:
“Ascoltami, piccolo troglodita infingardo, sparacazzate a tutte le ore. Tu che sei l’ultimo arrivato nella banda… e che hai tanto tempo da perdere nel blog di Nicolò e di quello lì, come si chiamava? ah già… Fausto! Che sia maledetto…! È già tanto se ti abbiamo concesso questa udienza. Ora però non inventarti stronzate. Ho studiato agraria, io! Vieni al sodo, quattrocchi del cazzo! Stiamo già tutti perdendo troppo tempo davanti questa messa in scena. Decidi a concludere o agirò come da accordi non scritti. E tu sai a cosa mi riferisco, vero?”
Fece schioccare sonoramente il pollice della sua possente mano sinistra e fu in quel momento che irruppe al tavolo una vocina fastidiosa.
“Ah ah ah. Ale davvero buffo…Ah, ah, ah!”
Con il suo solito tono stridulo e strafottente la figura alta e dinoccolata si girò verso di noi. Finora se n’era stata seduta alla mia destra voltando a tutti le spalle. Quasi come non gli fregasse alcunché di quanto volessi dichiarare. Era tutto preso dal vomitare gli ultimi pezzi di una piadina e delle relative croste nere miste a cipolla. I suoi denti si mostrarono a noi in una parata infinita di rimasugli stomachevoli.
Nicolò in effetti non reggeva bene l’alcol e quando ricominciò a ridere aveva appena finito di lasciare sul ciottolato della piazza il segno del suo passaggio, una pozza di molliccio vomito caldo e fumante.
“Ah, ah ah. Certo voi proprio no i grado parlare civilmente, vero?”
Aveva lo sguardo acceso in maniera innaturale quel ragazzo. Un po’ come se qualcuno, con del botulino, fosse intervenuto per imprimergli un eterno sorriso sinistro. Un sorriso tra il sarcastico e l’arrogante.
“Ale, tu no spara cazzate, tu no spara cazzate! Dire quello che devi dire e basta. E basta!”
“Si, ma io vorrei che…”
“Vorrei, vorrei… tu non volere un cazzo di niente. Tu no capisce, tu no capisce! Perché no capisce?!”
Cominciò a fare cenni di saltello sulla sedia e ad agitare ampiamente le mani. Era come un bambino infastidito dallo star seduto che chiedeva insistentemente di alzarsi dall’odiato seggiolone.
“No, Nico, io capisco, capisco eccome…”
“Ma va là! Perché tu no essere flessibile? Perché no essere flessibile?”
Il Nico ripeteva le stesse cose sempre due volte. Eppure era italiano. Certamente non proveniva da paesi medio orientali, eppure usava da sempre quel modo di sbilenco di parlare. Ad alta voce. Era come se, anche a tu per tu, dovesse parlare con una persona distante parecchie centinaia di metri. Il suo tono era alto, esageratamente alto.
Era davvero fastidioso, pensai. E lo feci senza nascondere il mio sguardo perché ero sicuro che la cosa valesse anche gli altri.
“Io pensato tutto, io pensato tutto! Questa volta organizza io tutto, organizza io tutto!”
Il suo uso dei tempi verbali aveva qualcosa di orrido. Erano dichiaratamente, palesemente sbagliati. Tutto all’infinito. O tutto in terza persona. Stare ad ascoltarlo per più di cinque minuti metteva l’ansia. Insinuava terribili dubbi persino al catalano riccioluto, suo amico, o “ammicco” come diceva lui, che si prodigasse ad apprendere la lingua nostrana.
“No, Nico non c’è bisogno. Ti avevo promesso che ci avrei pensato io...”
“Noo, noo. Tu ascolta a me! Ammicco, tu ascolta me, ammicco…!” insisteva mentre si agitava e perdeva al cielo il suo strano sguardo eternamente sorridente in netta antitesi alle sue parole di rimprovero.
Nico non mi voleva ascoltare. Come sempre del resto. Non ricordo quante volte mi fossi chiesto se fosse realmente in grado, oltre a parole doppiate, di esprimere concetti in maniera chiara, uniforme e lineare. Ma quando osservai un pezzo di fungo masticato colare giù, lentamente, persino dal suo naso, stirai le labbra e strinsi i denti. Colsi la certezza di quell’impossibilità.
“Fatto tutto, Fatto tutto. Voi no pensa! No pensa. Questo organizzato. Dico verità, io organizzato tutto.” E si voltò verso il capo.
Mi accorsi che Stino lo stava osservando in silenzio e, forse, con cauto ribrezzo. Nico era in fondo il numero due del gruppo, la persona a cui tutti dovevano portare un certo rispetto. Persona temuta in particolar modo da lui, Marco, che ambiva al suo posto nel branco. Nonostante una personalità fortemente debilitata era riuscito a portare a termine una quantità notevoli di missioni. Neanche Stino era riuscito ad accalappiare a favor del branco una tal quantità di femmine di razza umana.
In questo, Nico era il numero uno. E Stino lo sapeva. Per questo si limitava ogni volta a scrutarlo nelle sue spastiche movenze e a cercare nel suo viso sempre acceso il segreto del suo successo.
“Hai fatto bene, Nico. Come sempre”. Stino alzò la sua mano come se volesse calmarlo, ma senza toccarlo.
“Ah ah ah!” riprese a ridere il dinoccolato senza alcuna apparente ragione. “Certamente hai già organizzato bene… pur tuttavia…”
Stino tornò ancora su di me lasciando che il numero due tornasse ad agitarsi sul suo seggiolone immaginario. Ma si dimenticò definitivamente di lui solo quando lo vide volgere lo sguardo a terra, come perso, mentre con l’indice mirava ad un punto indefinito della pozza di vomito ancora carica di odore acidulo. Forse, nella sua testa, il Nico stava cercando di specchiarcisi.
“… Pur tuttavia, dicevo, Ale ha chiesto a noi tutti udienza, ragazzi”.
Tirò un sospiro profondo mentre cominciò a guardarsi dietro con la coda dell’occhio e a scorgere molte persone che ora si avvicinavano. C’erano alcuni ragazzi e alcune ragazze. No, di più. C’era tutta la compagnia. Quanti fossero davvero non ricordo.
Fece poi uno schiocco con due dita e il gruppo si fermò. Nel silenzio del capo tutti cominciarono a parlare sottovoce, tra di loro, e a mormorare. Ma il capo ancora non ebbe nulla da rimproverare.
Marco si risvegliò dal suo sporco torpore quando si rese conto di essere affiancato da due bellissime ragazze. Erano spagnole e mai viste prima. Ne rimase quasi stupito. Era da molto tempo che non vedeva una donna a meno di cinque metri e mezzo dal suo raggio di azione. Per sincerarsi del fatto originale cominciò a pulirsi gli occhiali con i nudi polpastrelli e finì con lasciare più unto di grasso di quanto non ve ne fosse prima.
Dall’altra parte Nicolò continuava a rigurgitare gli ultimi sorsi di spritz al Campari che tanto gli era caro, mentre sorrideva allo sguardo del narciso sé stesso riflesso nel venefico intruglio. Attorno a lui nessuno. Le figure di tutto il resto del gruppo evitarono accuratamente la zona per non pestare i bei pezzettoni di polpapronta superbamente riversati e suddivisi per dimensione sui tanti ciottoli di quell’angolo di Piazza dei Signori.
Tutto il resto del gruppo di Padova ora osservava Ale in attesa della sua richiesta.
Molti mormoravano già cose assurde, tipo che era diventato gay. Altri preferivano guardarlo nel silenzio di vergogna prepagata.
“Silenzio tutti!” urlò Stino mentre vibrò nell’aria quella sonora scurreggia, figlia del suo torbidume intestinale che fece trasalire d’un brivido la schiena di tutti. E per un attimo fu il peggio.
“Ora dicci! Ti stiamo leggendo le labbra tutti quanti..
“Si, parla!” sbottarono in molti.
“Cosa vuoi? Cos’è tutta sta messa in scena?!” Incalzavano altri.
”Parla! Dicci!”
Avevano tutti con il tono di chi si piega al volere del proprio capo. Per un attimo esitai ancora. Mi sentivo troppo al centro dell’attenzione, di tutti. Il cuore batteva forte. Forse stavo davvero per chiedere troppo.
“Vorrei chiedervi una cosa…”
Tutti avvicinarono il capo in segno di crescente attenzione.
“Una cosa da farsi possibilmente nel mese di giugno prossimo venturo…”
Ora si che gli sguardi si aprivano fino allo stupore.
“Cosa?” mi chiesero all’unisono.
“Ragazzi…”
Era come se mi volessero mangiare dalla curiosità per tutto il tempo che avevo fatto perdere loro con questa porcheria immane, ma alla fine la richiesta uscì sola, tutto d’un colpo:
“ANDIAMO A GARDALAND, IN DATA VENERDI’ 29 GIUGNO 2007?”